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Il sogno simbolico di Innocenzo III: Francesco ripropone una Chiesa evangelica (Giotto - Assisi)
      Francesco lasciò l'Egitto dove aveva visto gli orrori della guerra dei crociati. Aveva parlato con sultano al-Malik. Aveva approfittato per visitare la Palestina e i luoghi santi. Nella primavera del 1219 Francesco, prima di imbarcarsi per l’Italia, incontrò un certo frate Stefano che gli raccontò della divisione tra i frati, avvenuta durante la sua assenza, a causa della regola; si parlava di tradimenti e che qualcuno stava rivedendo, in maniera meno rigida, la regola. Francesco, raccolti vicino a sé Pietro Cattani, Elia, Cesario da Spira e Stefano, lasciò la Terra santa e si imbarcò da San Giovanni d'Acri per far vela verso Venezia. Durante la traversata Francesco in silenzio meditava se avesse fatto bene a lasciare i suoi frati per andare in una missione troppo grande per lui, cioè di convertire il sultano. Forse si chiedeva perché la sua regola era ritenuta troppo rigida se era stata data agli Apostoli da Gesù stesso, e perché volevano seguire il suo esempio se non erano d’accordo.


      Arrivato a Bologna un fatto eclatante metterà a dura prova la pazienza del padre fondatore del movimento francescano. Alcuni frati avevano istallato un cenobio in una grande casa in muratura e, orrore degli orrori, in quel convento i frati, contro ogni perfetta letizia, si dedicavano agli studi di teologia. I frati furono, per ordine di Francesco, subito sfrattati; alcuni di questi andarono a lamentarsi con il Cardinale Ugolino, protettore dei francescani. A questo punto Francesco prese la decisione di andare a Roma per palare con il papa o con il cardinale Ugolino. Ma a Roma Onorio III approvava una regola, a cui aveva messo mano anche il cardinale Ugolino, per renderla non solo meno rigida, ma soprattutto per frenare l’eccessivo spostamento dei frati, di cui i vescovi si lamentavano e quindi poterli meglio controllare. Francesco osò lamentarsi della proprietà dei conventi, ma il cardinale Ugolino dei conti di Segni (più tardi diventerà Gregorio IX e proclamerà Francesco santo), eletto protettore dei francescani da Onorio III, lo rassicurò che tutte le proprietà usufruite dai frati erano proprietà della Chiesa.
      Francesco decise di dimettersi da Ministro Generale del suo movimento, diventando frate tra i frati e partì accompagnato da alcuni frati verso il sud Italia, quindi tornando verso Assisi, si fermò a Greggio. Forse cercava una consolazione divina che lo facesse uscire dalle diatribe umane dei suoi carissimi fraticelli. Chiamò il signore di Greggio, Giovanni Velita, e a lui confidò un suo desiderio: vedere ricostruita la scena della nascita di Gesù. Forse nel suo animo desideroso di somigliare in tutto a Cristo riecheggiavano le parole evangeliche “Lasciate i bambini, non impedite che vengano da me, perché il regno dei cieli è per chi assomiglia a loro.” (Mt. 19, 14). E Giovanni Velita gli organizzò la scena di Betlemme, con personaggi veri presi dal popolo di Greggio; mancava solo il bambino Gesù. La tradizione vuole che il Bambinello si palesasse, vivo e vegeto, nella mangiatoia. Francesco lo prese e con dolcezza lo abbraccio teneramente e pianse per la consolazione ricevuta in quella notte di Natale del 1223.

A Greggio Francesco abbraccia il Bambino del Presepe (Giotto - Assisi)
Poi si ritirò sulla montagna della Verna dove mentre era in preghiera “vide in una visione divina stare al disopra di lui un uomo, confitto alla croce. … Non riusciva a intendere nulla di preciso e rimaneva preoccupato per la singolarità dell'apparizione, quando cominciarono ad apparire nelle sue mani e nei piedi segni di chiodi. … Il lato destro era poi come trafitto di lancia, con una lunga cicatrice, e spesso mandava sangue...”, e nonostante i dolori delle stimmate, la cecità quasi totale, il fisico provato da febbri, continuò a predicare come il più umile dei frati per l'Umbria e le Marche. A fine estate del 1226 torna ad Assisi, alla Porziuncola, e chiamati attorno a sé i suoi amici e fratelli dettò il suo testamento, e il 4 ottobre 1226 moriva e tutti gli astanti videro le stimmate.

Francesco confortato dalle stimmate per proseguire la sua missione (Giotto -Santa Croce - Firenze)
      «Il Signore dette a me, frate Francesco, d’incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi; e il Signore mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d'animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.
      E il Signore mi dette tale fede nelle chiese, che io così semplicemente pregavo e dicevo: «Ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, anche in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo».
      Poi il Signore mi dette e mi dà una così grande fede nei sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa Romana, a motivo del loro ordine, che anche se mi facessero persecuzione, voglio ricorrere a loro. E se io avessi tanta sapienza, quanta ne ebbe Salomone, e incontrassi sacerdoti poverelli di questo mondo, nelle parrocchie in cui dimorano, non voglio predicare contro la loro volontà. E questi e tutti gli altri voglio temere, amare e onorare come i miei signori. E non voglio considerare in loro il peccato, poiché in essi io riconosco il Figlio di Dio e sono miei signori. E faccio questo perché, dello stesso altissimo Figlio di Dio nient'altro vedo corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il santissimo sangue che essi ricevono ad essi soli amministrano agli altri.
      E voglio che questi santissimi misteri sopra tutte le altre cose siano onorati, venerati e collocati in luoghi preziosi. E dovunque troverò manoscritti con i nomi santissimi e le parole di lui in luoghi indecenti, voglio raccoglierli, e prego che siano raccolti e collocati in luogo decoroso.
E dobbiamo onorare e venerare tutti i teologi e coloro che amministrano le santissime parole divine, cosi come coloro che ci amministrano lo spirito e la vita.
      E dopo che il Signore mi diede dei frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo. Ed io la feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor Papa me la confermò.
E quelli che venivano per abbracciare questa vita, distribuivano ai poveri tutto quello che potevano avere, ed erano contenti di una sola tonaca, rappezzata dentro e fuori, del cingolo e delle brache. E non volevano avere di più. Noi chierici dicevano l'ufficio, conforme agli altri chierici; i laici dicevano i” Pater Noster”; e assai volentieri ci fermavamo nelle chiese. Ed era-vamo illetterati e sottomessi a tutti.
Ed io lavoravo con le mie mani e voglio lavorare; e VOGLIO FERMAMENTE che tutti gli altri frati lavorino di un lavoro quale si conviene all'onestà. Coloro che non sanno, imparino, non per la cupidigia di ricevere la ricompensa del lavoro, ma per dare l'esempio e tener lontano l'o-zio. Quando poi non ci fosse data la ricompensa del lavoro, ricorriamo alla mensa del Signore, chiedendo l'elemosina di porta in porta.
Il Signore mi rivelò che dicessimo questo saluto: "Il Signore ti dia la pace! ".
      SI GUARDINO BENE i frati di non accettare assolutamente chiese, povere abitazioni e quanto altro viene costruito per loro, se non fossero come si addice alla santa povertà, che abbiamo promesso nella Regola, sempre ospitandovi come forestieri e pellegrini.
      COMANDO FERMAMENTE per obbedienza a tutti i frati che, dovunque si trovino, non osino chiedere lettera alcuna [Nota: cioè raccomandazioni] nella curia romana, né personalmente né per interposta persona, né per una chiesa né per altro luogo, né per motivo della predicazione, né per la persecuzione dei loro corpi; ma, dovunque non saranno accolti, fuggano in altra terra a fare penitenza con la benedizione di Dio.
      E FERMAMENTE VOGLIO obbedire al ministro generale di questa fraternità e a quel guardiano che gli piacerà di assegnarmi. E cosi voglio essere prigioniero nelle sue mani, che io non possa andare o fare oltre l'obbedienza e la sua volontà, perché egli è mio signore. E sebbene sia semplice e infermo, tuttavia voglio sempre avere un chierico, che mi reciti l'ufficio, così come e prescritto nella Regola.
      E non dicano i frati: «Questa e un'altra Regola», perché questa è un ricordo, un’ammonizione, un’esortazione e il mio testamento, che io, frate Francesco piccolino, faccio a voi, miei fratelli benedetti, perché osserviamo più cattolicamente la Regola che abbiamo promesso al Signore. E il ministro generale e tutti gli altri ministri custodi siano tenuti, per obbedienza, a non aggiungere e a non togliere niente da queste parole. E SEMPRE TENGANO CON SÉ QUESTO SCRITTO ASSIEME ALLA REGOLA. E in tutti i capitoli che fanno, quando leggono la Regola, leggano anche queste parole [Nota: la regola di “Pietro” non deve annullare quella di “Giovanni”]. E a tutti i miei frati, chierici e laici, COMANDO FERMAMENTE, per obbedienza, che non inseriscano spiegazioni nella Regola e in queste parole dicendo: «Così si devono intendere» ma, come il Signore mi ha dato di dire e di scrivere con semplicità e purezza la Regola e queste parole, così cercate di comprenderle con semplicità e senza commento e di osservarle con sante opere sino alla fine.
      E chiunque osserverà queste cose, sia ricolmo in cielo della benedizione dell'altissimo Padre, e in terra sia ricolmato della benedizione del suo Figlio diletto col santissimo Spirito Paraclito e con tutte le potenze dei cieli e con tutti i Santi [Nota: sembra una benedizione “Urbe et Orbi”]. Ed io frate Francesco piccolino, vostro servo, per quel poco che io posso, confermo a voi dentro e fuori questa santissima benedizione. Amen.»